AGELESS OBLIVION - PENTHOS


Quando il technical death metal incontra il progressive arrivano i dischi da durate sproporzionate, e qui, a portata di mano, ne abbiamo subito un esempio concreto con questo "Penthos".
Finalmente ci distacchiamo dal tech-death classico di mamma America, per andare a parlare di quello Inglese, più precisamente dalle parti di Hampshire dove appunto provengono questi Ageless Oblivion. La loro musica si differenzia subito da ciò che siamo abituati a sentire o ad immaginarci quando sentiamo dire "technical death" e le influenze progressive in aggiunta lo portano ad essere un disco certamente non dalle larghe vedute. Nonostante questo però, l'ultima fatica dei Ageless Oblivion racchiude in se momenti abbastanza catchy; vedi la opener "Wolf's Head" con il growl trascinatore di Stephen accompagnato da riff puramente tech-death, la successiva "The Midas Throat" grazie ad un ritornello che ti rimane in testa (per me è stato il punto di riferimento per inquadrare l'album all'inizio) e la doppietta "Glacial Blood", "Where Wasps Now Nest" con la sua componente progressive molto intrigante e indiretta ma che nonostante ciò ti imprigiona in un vicolo cieco dove l'unica possibilità che hai è premere "play" fino allo sfinimento. Quest'ultimo il momento più alto del disco senza ombra di dubbio. Notiamo subito alcuni elementi chiave: l'angosciante growl di Stephen molto assiduo e non sempre usato per far decollare le canzoni e le chitarre quasi sempre dissonanti che eseguono arpeggi in pulito e assoli molto ricercati e per nulla banali. Riguardo quest'ultime componenti mi vengono subito in mente band come i canadesi Gorguts o i neozelandesi Ulcerate e devo dire che "l'ispirarsi senza rubare troppo" adottato da questi giovani inglesi, funziona. Poi gli altri pezzi, tranne uno a cui riserverò un capitolo approfondito più avanti, non spiccano sugli altri come questa prima mezz'oretta; sono motivo dunque dell'ascolto ricercato che serve per comprendere questo "Penthos". Ma alla fine se avete ben presente i gruppi prima citati, non vi risulterà del tutto nuova questa abnorme distanza dall'ascoltare al comprendere.
Tutto bello e dissonante fino a quando non arriviamo a "Penthos Lament" (la traccia di cui vi parlavo), qui se prima vi avevo lasciato intendere che sembravano quasi i Gorguts, cosa più che vera, con questa traccia di 9 minuti circa, i nostri diventano i Gorguts per tutto ed in tutto. Questa penultima traccia mi ha veramente spiazzato, dato che il disco fino ad ora non aveva dimostrato tale ferocia, esplosività ed aggressione, ma al contrario, una distinzione abbastanza equilibrata tra elementi death e progressive: per cui pollici in su per questa "traccia che non ti aspetti" veramente da oscar.
Quando speri che il disco possa essere finito qui, non perché ti sei stufato di sentire questo sound ma perché una chiusura così ci stava troppo; ecco che arriva un'altra (evitabile a mio modo di vedere) traccia di 6 minuti e mezzo al quale ancora dopo ripetuti ascolti non so darmi spiegazioni plausibili, se non quella di voler superare di netto l'ora di durata, dato che fino a "Penthos Lament" siamo a un'ora giusta giusta; ma va beh senza farci troppe seghe mentali, accettiamolo per ciò che è e soprattutto non andiamo a spegnere l'entusiasmo creatosi fino a questo momento.
Finale a parte, reputo "Penthos" un capolavoro del genere che con molta probabilità vedremo diventare il migliore di quest'anno riguardante la sponda tech death/progressive; ma è presto per parlare. Fatto sta che di gente che fa musica così ben organizzata e che ti presenta un disco da oltre un'ora che scorre in maniera così fluida e tutto sommato abbastanza diretta, non ce ne sono molti: sopratutto molti che non siano americani. Esordio da rivedere per gli inglesi, che si rifanno 4 anni dopo con questo "Penthos" che senza troppi indugi va dritto dritto nella mia classifica dei migliori lavori d'annata.






Marco Gattini
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