Diciamocelo onestamente, nel 2015 il mondo non aveva davvero bisogno di sentire un nuovo album degli Iron Maiden, eppure ciò è accaduto e non ci resta che tirare le somme. Tranquilli fans-die-hard potete continuare a leggere questa recensione, non boccerò l’album, cercherò solamente di dirvi qualcosa che qualcuno avrebbe dovuto dirvi da tempo, o forse vi dirò qualcosa che avete già sentito dire ma di cui non ve ne frega niente, ma io ve la dirò lo stesso, cheers.
Gli Iron Maiden sono artisticamente bolliti, e non ci piove, basta esser dotati di un minimo di onestà intellettuale per riconoscere che la loro penultima fatica, The Final Frontier (2010), era pressappoco un insulto al buon gusto. Io certamente rimango in parte ancora affezionato ai Maiden in quanto esponenti della mia infanzia musicale e cerco sempre di salvare il salvabile, ma quando un disco è così brutto c’è veramente ben poco da trarre in salvo. Grazie al cielo The Book of Souls vira nettamente su altri lidi confermando ciò che ho sempre pensato: The Final Frontier fu uno scivolone, un enorme errore di percorso, lo stile compositivo del nuovo album e nega a mani basse quel percorso, abbiamo a che fare infatti con un ritorno a brani più complessi, lunghi e progressivi, esattamente com’era accaduto nel discreto A Matter of Life and Death. Certamente anche in The Final Frontier i brani erano lunghi, ma la proposta musicale era un heavy abbastanza sempliciotto e decisamente infimo, in questo caso invece i brani risultano maggiormente pensati, cupi, e tutto tranne che diretti; per l’appunto pare proprio di trovarci tra le mani la vera continuazione della strada intrapresa col platter del 2007.
Con ciò non voglio gridare al miracolo, The Book of Souls ha i suoi pro ma anche i suoi contro, infatti l’eccessiva prolissità è palpabile in certi frangenti, così come il boccheggiare di idee o l’estremo auto citazionismo e riciclo di soluzioni usate nel passato sia prossimo che remoto della band. L’album è un polpettone già a partire dalla durata: 91 minuti suddivisi su due dischi, dunque se cercate un heavy diretto e catchy memori dei classici dei Maiden tenetevi pure alla larga da questo disco, perché come ascolto è abbastanza ostico. Avvisati e mezzi salvati.
Nonostante questi prevedibili difetti la proposta musicale di TBOS si mantiene quasi sempre su buoni livelli, a tratti ottimi. Se al primo ascolto molte cose non colpiscono, già al secondo approccio il feeling migliora e ci si accorge di qualche perla, su tutte mi sento di spezzare una lancia a favore dell’opener, dotata di un ritornello azzeccatissimo, e in generale brano molto atmosferico, mentre la title track è contraddistinta da un riff pachidermico che farà contenti non pochi ascoltatori. In effetti l’unica vera nota dolente del primo cd è il singolo Speed of Light, il brano del lotto che più ricorda il precedente lavoro: Il pezzo nel complesso funziona, ma come singolo non convince, soprattutto per i sovracuti di Dickinson che non brillano esattamente di luce propria come un tempo. Ma in fondo la prova vocale si attesta su livelli medio-buoni in tutto il disco, forse i brani in cui Dickinson spicca di più dimostrando di aver ancora qualcosa da dire sono la title track e Shadows of the valley, quest’ultima per chi scrive vince la palma d’oro come miglior brano dell’album -nonostante in questa sola canzone si possano riconoscere almeno tre auto-plagi-... Altre lance le spezziamo per la coppia di suite The great unknown e The red and the black, le quali contengono dei momenti molto interessanti con atmosfere che rimandano marcatamente a Matter of life and death. Probabilmente Death or glory è il brano più Iron Maiden del lotto nel senso classico del termine, una cavalcata piacevole che fuor di dubbio sarà proposta dal vivo. Gli ultimissimi tre pezzi dell’album sono quelli che convincono di meno: Se Tears of a clown rimane un bel pezzo hard rock con qualche sbavatura, The man of sorrows risulta abbastanza piatta, mentre la suite Empire of the cloud è veramente sfiancante, non brutta in senso stretto, perché anche in questo caso il livello compositivo è buono, ma siamo veramente lontani dall’eccellenza, e i pezzi di 18 minuti andrebbero lasciati scrivere a chi li sa scrivere. L’esperimento della canzone più lunga mai realizzata dagli Iron Maiden non penso sia un totale fallimento, ma il brano a mio avviso funziona solo in parte. Il coraggio di osare è notevole, ma talvolta l’atto stesso risulta azzardato, e questo pare proprio il caso.
In ultima battuta si può dire che i Maiden siano riusciti anche nel 2015 a sfornare un lavoro discreto, a tratti ottimo, a tratti decisamente meno. In molti mi odieranno per le mie considerazioni, ma purtroppo pur amando la musica il mio compito è quello di tendere all’obiettività nell’analisi della stessa, e quest’album non è affatto il capolavoro che molti osanneranno. Un plauso va comunque al gruppo perchè penso che nel tempo vari pezzi gireranno nella mia playlist, Book of souls e Shadows of the valley in primis; è tuttavia auspicabile che questo disco venga ricordato come una dignitosa chiusura di carriera, perchè il pensiero di un diciassettesimo album targato Iron Maiden, oggi come oggi mi spaventa..
SENTENZA: l'INPS non li paga
Recensore: Malleus
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